I Diari di Raimon Panikkar, appena pubblicati, sono molto interessanti per la comprensione dell’uomo e dell’autore che si celano dietro gli oltre 60 volumi pubblicati in vita (senza contare quelli dell’Opera Omnia). Non solo e non tanto per l’importanza dell’intreccio fra la biografia e la bibliografia, quanto per l’evidenza dei riferimenti che confermano il suo pensiero altrove espresso, o lo mettono in discussione – aprendo, puntualmente, prospettive di studio inedite e benvenute.
1. L’uomo
Prima di concentrarsi sul nucleo teoretico, ci si conceda qualche breve appunto sugli aspetti più squisitamente biografici. Dalle pagine dei Diari emerge il ritratto di un uomo che, per quasi tutta la vita, ha sofferto di solitudine, della mancanza anche di una sola amicizia che gli permettesse lo scambio intimo e profondo di cui sentiva il bisogno; in particolare, Panikkar manifesta il rimpianto di non esser riuscito a coltivare come avrebbe voluto il rapporto con Ivan Illich, che aveva incontrato in più d’un’occasione e del quale parla almeno sei volte nel testo.
(Continua a leggere su «Dialegesthai», 16 aprile 2020)
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sabato 13 aprile 2019
Ammore e malavita. Innovazione e tradizione nel cinema dei Manetti Bros.
Che cos’è Ammore e malavita dei Manetti Bros.? Una commedia, una parodia, una sceneggiata à la Merola, un musical? Da qualunque prospettiva si voglia guardarlo, il film resta un tentativo – il primo, a quanto ci consta – di riportare il noir napoletano nel solco della tradizione. Dopo Gomorra – il film e soprattutto la serie – l’estetica del crime napoletano sembrava infatti segnata per sempre dall’esigenza di un iperrealismo che finisce per irrigidirsi ed essere sempre uguale a se stesso, pur nella sua encomiabile scelta di fondo, nonché nel risultato; ma tale da soffocare ogni spazio creativo. I Manetti, invece, riprendono la formula del noir partenopeo dei padri contemporanei del genere, a partire da Veraldi: le due “tigri” sulla motocicletta non ricordano forse i killer del “consorzio” che imperversavano su due ruote in tangenziale muniti di uncino con il quale arpionavano le loro vittime? Riuscendo così a riportare il colore dove ormai non si vedeva più che grigio; armonia (anche grazie all’invasiva e per la verità non sempre azzeccata presenza della colonna sonora) dove non c’era che desolazione; e di autentico thrilling, finalmente, troppo spesso rimpiazzato dal raccapriccio.
Come hanno fatto? Liberandosi, in primo luogo, dalla dittatura dei “fatti” (dei quali mostrano che si può fare egregiamente a meno: o siamo ancora ai discorsi del cinema come cronaca?), sgomberando il campo dal vecchio imperativo del di’-le-cose-come-stanno (che molto spesso è il modo migliore per distruggere l’arte) e, successivamente, da quella dei clichè, di cui si servono solo per irriderli, come nella scena finale del funerale smascherato. Così facendo, i registi consegnano un film ricco di pathos – come nell’assalto all’imbarcazione da parte di un Ciro bardato di attrezzature sofisticatissime che richiamano James Bond (peraltro citato) – strizzando l’occhio al cinema americano degli ’80 (presente nel modellino della DeLorean di Ritorno al futuro; ma ancor di più alla preparazione dei killer che sembrano ninja addestrati come il Batman di Nolan); e che fa sorridere al momento giusto senza spezzare il ritmo (come nella clamorosa battuta finale sugli spaghetti al pomodoro): con una formula che i Manetti hanno già ampiamente collaudato in Coliandro, ma che – tornare per un attimo al discorso sulla tradizione – è tipica di pellicole come Operazione San Gennaro.
Dopo averlo visto in TV, oltre che al cinema, sappiamo che Ammore e malavita non ha perso il suo smalto. Passerà l’ondata (benemerita, come dicevamo) dei tanti Suburra, Gomorra & C. e questo film resterà: come punto di rottura, come recupero di una tradizione narrativa e filmica che Napoli ha a lungo coltivato e che il successo della fiction ha soltanto messo in ombra. E vuol dire, parafrasando il protagonista, che anche questa volta i Manetti non hanno sbagliato un colpo.
Come hanno fatto? Liberandosi, in primo luogo, dalla dittatura dei “fatti” (dei quali mostrano che si può fare egregiamente a meno: o siamo ancora ai discorsi del cinema come cronaca?), sgomberando il campo dal vecchio imperativo del di’-le-cose-come-stanno (che molto spesso è il modo migliore per distruggere l’arte) e, successivamente, da quella dei clichè, di cui si servono solo per irriderli, come nella scena finale del funerale smascherato. Così facendo, i registi consegnano un film ricco di pathos – come nell’assalto all’imbarcazione da parte di un Ciro bardato di attrezzature sofisticatissime che richiamano James Bond (peraltro citato) – strizzando l’occhio al cinema americano degli ’80 (presente nel modellino della DeLorean di Ritorno al futuro; ma ancor di più alla preparazione dei killer che sembrano ninja addestrati come il Batman di Nolan); e che fa sorridere al momento giusto senza spezzare il ritmo (come nella clamorosa battuta finale sugli spaghetti al pomodoro): con una formula che i Manetti hanno già ampiamente collaudato in Coliandro, ma che – tornare per un attimo al discorso sulla tradizione – è tipica di pellicole come Operazione San Gennaro.
Dopo averlo visto in TV, oltre che al cinema, sappiamo che Ammore e malavita non ha perso il suo smalto. Passerà l’ondata (benemerita, come dicevamo) dei tanti Suburra, Gomorra & C. e questo film resterà: come punto di rottura, come recupero di una tradizione narrativa e filmica che Napoli ha a lungo coltivato e che il successo della fiction ha soltanto messo in ombra. E vuol dire, parafrasando il protagonista, che anche questa volta i Manetti non hanno sbagliato un colpo.
giovedì 14 febbraio 2019
lunedì 3 dicembre 2018
M. Prisco, Una spirale di nebbia, ed. Rizzoli, 1966
L’atmosfera naturalmente silenziosa del bosco contribuisce a rendere la scena del crimine ancora più inquietante. Anche se, di fatto, nessuno sa ancora con certezza se si tratti davvero d’un crimine: il proiettile mortale è certamente partito dal fucile di Fabrizio Sangermano, uomo di buona famiglia; ma lui continua a sostenere che si sia trattato di un incidente, terribile, certo, ma pur sempre un incidente. È scivolato, dice, e la pallottola fatale è partita in maniera casuale e infallibile. Tuttavia, i conti non tornano: l’esperto balistico, accorso sul posto, sostiene che la traiettoria mortale non è compatibile con la versione fornita, perché il colpo ha attraversato la vittima orizzontalmente, come da una posizione di tiro ideale, e non dal basso verso l’alto, come la descrizione dell’uomo farebbe pensare. E poi c’è la questione del silenziatore: perché applicarlo a un fucile da caccia? Dice che serve a non far mettere in allarme tutti gli uccelli, in seguito a un colpo mancato; ma questo non lo rende meno strano. I giornali, intanto, hanno già “risolto” il caso a modo loro: si è trattato di una tragica fatalità, e la reputazione del casato Sangermano è salva...
Con Una spirale di nebbia Michele Prisco, autore della provincia di Napoli, vinse il Premio Strega 1966 (anno in cui il romanzo ricevette ben dieci edizioni nei primi cinque mesi, quattro nel solo agosto); poco più di dieci anni dopo - era il 1978 - Eriprando Visconti portò la storia sul grande schermo, con una giovanissima Eleonora Giorgi. Un “thriller psicologico”, com’è stato definito, che ha molto del secondo termine, meno del primo (soprattutto a paragone con il thriller moderno ad alta tensione), nel quale l’esplorazione delle menti dei protagonisti ai limiti dell’egotismo (a volte oltre) prende il sopravvento sul ritmo e sulla linearità di una trama che viene continuamente richiamata su sentieri altri da ricordi, considerazioni, osservazioni, appunti (e il lettore si imbatte spesso in forme desuete come “nailon” e “cellofane”). Il segnalibro dedicato stampato da Rizzoli sottolinea il rinnovamento nella narrativa di Prisco (che all’epoca aveva già pubblicato sei romanzi, con i quali aveva vinto un Premio Venezia e un Premio Napoli) e la “maturità d’un narratore che continua il suo discorso obbedendo solo al richiamo della sua voce interiore”. Punto di forza che finisce per sacrificare la leggibilità in favore della complessità dell’intreccio.
(«Mangialibri», 3 dicembre 2018)
Con Una spirale di nebbia Michele Prisco, autore della provincia di Napoli, vinse il Premio Strega 1966 (anno in cui il romanzo ricevette ben dieci edizioni nei primi cinque mesi, quattro nel solo agosto); poco più di dieci anni dopo - era il 1978 - Eriprando Visconti portò la storia sul grande schermo, con una giovanissima Eleonora Giorgi. Un “thriller psicologico”, com’è stato definito, che ha molto del secondo termine, meno del primo (soprattutto a paragone con il thriller moderno ad alta tensione), nel quale l’esplorazione delle menti dei protagonisti ai limiti dell’egotismo (a volte oltre) prende il sopravvento sul ritmo e sulla linearità di una trama che viene continuamente richiamata su sentieri altri da ricordi, considerazioni, osservazioni, appunti (e il lettore si imbatte spesso in forme desuete come “nailon” e “cellofane”). Il segnalibro dedicato stampato da Rizzoli sottolinea il rinnovamento nella narrativa di Prisco (che all’epoca aveva già pubblicato sei romanzi, con i quali aveva vinto un Premio Venezia e un Premio Napoli) e la “maturità d’un narratore che continua il suo discorso obbedendo solo al richiamo della sua voce interiore”. Punto di forza che finisce per sacrificare la leggibilità in favore della complessità dell’intreccio.
(«Mangialibri», 3 dicembre 2018)
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